"Mio padre lo ricordo così"

(Il seguente brano è tratto dall'intervista di L.Simonelli

a Letizia Fonda Savio figlia di Italo Svevo)

 

Italo Svevo fra le quattro pareti della sua casa: ironico e triste, smemorato e bonario, un po' cleptomane ed un po' geloso, solista di violino deluso e mecenate degli artisti. Italo Svevo in famiglia, dietro il mito, dietro l'immagine ufficiale del grande scrittore, alle prese con le tante piccole cose di ogni giorno. Sono trascorsi sessant'anni dalla sua morte. Ormai tutti conoscono Una Vita, Senilità e La coscienza di Zeno, i romanzi che lo hanno reso famoso. Sono stati versati fiumi d'inchiostro sul caso di questo scrittore che il pubblico e la critica hanno scoperto soprattutto dopo la scomparsa. Ma la vita privata di Italo Svevo è ancora sconosciuta a molti. E sono le tessere di questo mosaico nascosto, apparentemente dissacrante, fatto di sfumature, di episodi anche divertenti, di atteggiamenti inconsueti e molto comuni che restituiscono la misura di un uomo che fu un grande scrittore. Un piccolo tesoro di ricordi che anni addietro sono andato a cercare nella dolcezza della memoria della figlia di Svevo, la gentile signora Letizia Fonda Savio. E con lei, l'ultima testimone di quella vita, anche dopo tanti anni dalla sua scomparsa, sembrava quasi di rivederlo quell'insolito padre, di incontrarlo, di sentirlo aggirarsi per le ampie stanze di quella sua stupenda casa triestina.

"Io ero piuttosto impertinente da bambina e le prendevo spesso da papà", ricorda Letizia Fonda Savio.

"La mamma, invece, non mi ha mai toccata. Infatti, quando ero piccola ero molto più affezionata alla mamma che al babbo. Ho invece cominciato a volergli molto bene quando, crescendo, avrò avuto dodici, tredici anni, ho capito che uomo fosse. Lui leggeva sempre capitoli interi dei suoi libri alla mamma e vedevo quanta ammirazione c'era nei suoi occhi. E' stato attraverso lei che ho cominciato ad avvicinarmi al modo di pensare e di vedere le cose del babbo".

Quando Letizia aveva dodici anni Italo Svevo, o meglio Ettore Schmitz (questo era il suo vero nome) aveva già scritto Una Vita e Senilità. Lavorava allora nella ditta Veneziani, produttrice di vernici sottomarine, che era di suo suocero. Erano finiti per lo scrittore i tempi duri e tristi, i tempi in cui le vicissitudini economiche della sua famiglia lo avevano portato a diventare oscuro e frustrato impiegato presso la succursale triestina della Banca Union di Vienna. Un lungo e triste periodo che era durato diciott'anni e di cui era rimasta una traccia proprio nel suo primo romanzo, Una Vita. Ed era scrivendo quelle pagine che Ettore Schmitz aveva deciso che le avrebbe firmate con uno pseudonimo. Ma perchè ha scelto di chiamarsi Italo Svevo?

"Molti hanno detto che mio padre", mi racconta Letizia,

"si è fatto chiamare così a causa di suo nonno che era tedesco. Non è vero! Sia il nome che il cognome non li scelse casualmente, ma dopo aver fatto un preciso ragionamento. Tutti sanno quanto il babbo fosse filoitaliano in una Trieste asburgica ed allora si può capire perchè trasformò Ettore in Italo. Per quanto poi riguarda il cognome, Svevo, lo adottò per sottolineare il fatto che la sua educazione era stata tedesca. Quindi lo pseudonimo ha un preciso significato: un vero italiano che ha avuto un'educazione tedesca. Era un bell'uomo magro, alto, con i baffi scuri e grandi occhi", ricorda ancora la figlia mentre per un attimo il suo sguardo sembra perdersi nel vuoto.

"Negli ultimi anni della sua vita era ingrassato, era diventato pesante, si muoveva lentamente, ma non aveva perso il suo grande vizio...".

Quello del fumo.

"Appunto. Lo sa che io sono riuscita a farmi regalare da lui una bicicletta perchè una volta ho scommesso che non sarebbe riuscito a smettere di fumare? E naturalmente ho vinto. Mio padre ha tentato tutta la vita, invano, di togliersi il vizio del fumo. Ricordo che un giorno è tornato a casa felice e ha detto: "Fioi, che contento che son! Xe tre giorni che non fumo, me sento un altro omo e quell'altro omo gha vogia de fumar!" e ha preso una sigaretta e l'ha accesa. Dunque, per tutta la sua vita, nonostante tanti tentativi, ha continuato a fumare le sue sessanta sigarette al giorno".

E' stato scritto che Svevo era pessimista. Dimostrava di esserlo anche in famiglia?

"Tutti i critici hanno notato questo nelle sue opere, ma nella vita di tutti i giorni mio padre era invece faceto, scherzava con tutti. Le voglio raccontare un episodio che mostra come lui prendesse la vita. Deve sapere che io mi sono innamorata a quindici anni ed il mio futuro marito ne aveva soltanto diciassette. Questo preoccupava molto la mamma. Pensava: "E' un ragazzo così giovane" Appena finito il liceo andrà all'università e dimenticherà mia figlia". Allora ha detto a mio padre: "Ti prego, chiama quel giovane e digli di lasciare in pace Letizia. Che torni quando sarà più grande e si sarà fatto una posizione!". Ma babbo si è rifiutato di fare questo discorso. "E' un bravo ragazzo, di buona famiglia. Chissà se Letizia ne potrà incontrare un altro come lui", ha replicato. "Almeno chiama tua figlia, falle una predica!", ha incalzato mia madre delusa. E così sono stata convocata dal babbo nel suo studio. Ricordo che quando mi ha chiamato ero piena di paura, temevo di sentirgli dire che non avrei dovuto più vedere il mio ragazzo. Invece, non è accaduto nulla! Il babbo mi ha semplicemente raccontato questa storia: "Un contadino un giorno è andato al mercato perchè aveva bisogno di un cavallo. Ma là cavalli non ce n'erano e lui ha dovuto accontentarsi di un bell'asino. Però, appena tornato a casa, si è pentito amaramente dell'acquisto perchè lui aveva proprio bisogno di un cavallo. Ora ti prego, Letizia, se desideri un cavallo non accontentarti di un asino. Capito?". Furono queste le parole che mi disse. Lo ricordo come se fosse oggi e grazie al suo intervento non fu ostacolato l'amore per quel giovane che sarebbe diventato mio marito. Ecco, Italo Svevo era un uomo estremamente buono, giusto. Naturalmente anche lui aveva i suoi difetti. Era, per esempio, di una distrazione enorme".

Dimenticava cose, oggetti?

"Una volta ha perso anche me. Ero bambina, molto piccola, e ci trovavamo a Villacco in villeggiatura. Mio padre non sapeva fare una valigia ed allora la mamma, che doveva preparare i bagagli per tornare a Trieste gli ha detto: "Ti prego Ettore, prendi la bambina, portala a fare una passeggiata. Nel frattempo io prepao tutto, pago il conto dell'albergo e poi partiamo". Allora siamo usciti. Ad un certo punto ci siamo fermati davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli ed io, naturalmente, mi sono bloccata per ammirare tutte quelle belle cose. E lui si è dimenticato di me ed è tornato in albergo. Vedendolo arrivare da solo mia madre, spaventatissima, gli ha detto subito: "Ettore e la putéla?". "Quale putéla?", ha risposto subito meravigliato. Poi, resosi conto della sua grande distrazione, è corso fuori a cercarmi. Per fortuna io non mi ero accorta di essere rimasta sola. Stavo ancora osservando, ammirata, i tanti giocattoli esposti in quella vetrina! Mio padre era maldestro, infatti era musicalissimo, suonava il violino, però non riusciva ad esprimere attraverso le mani quello che sentiva la sua anima. Non è mai stato un buon violinista".

E naturalmente gli dispiaceva.

"Lo irritava. Studiava per ore ed ore il violino e suonava in un quartetto d'archi familiare. Era secondo violino ed un giorno ricordo che in questi concerti in casa doveva fare un assolo. Lui si era preparato moltissimo per l'esibizione ma quando cominciò a suonare stonò. Allora, come se non fosse stato lui, si voltò di scatto e disse: "Chi xe che stona qua?". Mio padre alla fine buttava tutto sul ridere. Il viaggiare con lui era bellissimo. La ditta Veneziani aveva una succursale a Londra, papà ci andava spesso, con la mamma, e quando c'erano le vacanze li accompagnavo anch'io. Spesso babbo mi portava ad Hyde Park per sentire i discorsi delle suffragette. Era entusiasta di quelle cose ed un giorno disse che avrebbe voluto stabilirsi in Gran Bretagna. E disse anche perchè: "Vorrei che mia figlia godesse la vita come le ragazze inglesi. Quando le incontro per strada le vedo con il viso pieno di felicità".

Fu proprio a Londra che Italo Svevo conobbe James Joyce. Fu un incontro casuale perchè lo scrittore irlandese, l'autore dell'Ulisse, venne consigliato a Svevo come professore d'inglese dalla Berlitz School.

"Anche l'incontro con Joyce ebbe per mio padre un'enorme importanza", prosegue nel racconto, "infatti quando lo conobbe lui era molto depresso, aveva deciso di abbandonare la letteratura. Sì, aveva già pubblicato Una Vita e Senilità ma quelle opere erano state pressoché ignorate dalla critica. Quando Joyce scoprì di avere un allievo scrittore chiese a mio padre di prestargli i suoi libri. Li lesse e ne rimase veramente entusiasta. Fu questo l'inizio di un'amicizia che restituì anche a mio padre la voglia di scrivere. Se Italo Svevo trovò la forza di portare a termine La coscienza di Zeno fu merito di Joyce. Lo scrittore irlandese venne poi anche a Trieste. Ricordo che Joyce aveva una tremenda paura dei temporali e quando c'erano i fulmini era capace di andarsi a nascondere sotto le coperte del letto. Ad un certo punto aveva imparato anche a parlare ed a scrivere in triestino. Ricordo che Joyce si arrabbiava molto se sentiva dire delle parolacce.Diceva: "Si possono scrivere ma non dire".

Italo Svevo era molto innamorato della moglie. Come si erano conosciuti?

"Mia madre era la cugina di secondo grado del babbo. Era bellissima, bionda. E lo sa come lui riuscì a strapparle il primo bacio? Fu merito del fumo. Se lei lo avesse baciato lui avrebbe smesso di fumare. Mia madre cadde, o meglio volle cadere nel piccolo inganno, ma lui non smise affatto di fumare. Nel suo diario c'è una dedica per la fidanzata in cui parla di questo. Scrive: "Alla cugina Livia che volle, sebbene senza frutto, aiutarmi nella lotta contro il vizio. Ma è anche il ricordo di una mia truffa e fra le due la migliore azione. Ettore". E poi aggiunge come post scriptum: "Un bacio dato non è mai perduto". Mio padre prima di sposarsi aveva molti dubbi. Diceva di essere vecchio e malandato, mentre mia madre era una giovanetta. Tra loro, infatti, c'era una differenza d'età di tredici anni. Il babbo voleva molto bene alla mamma ed era anche geloso".

Come si manifestava questa gelosia?

"Mai in maniera estremamente visibile. Ma ricordo che il momento in cui era evidente era quando la mamma andava da sola a Salsomaggiore a fare le cure delle acque. Quando la vedeva preparare i bagagli, mettere nelle valigie tanti abiti, tanti gioielli, le chiedeva sempre a che cosa serviva tutta quella roba visto che andava a Salsomaggiore soltanto per curarsi".

E la signora Livia come reagiva?

"Ci rideva sopra. Le faceva anche piacere che mio padre fosse un po' geloso perchè questo significava che le voleva bene. Sapeva anche che lui era un po' rabbioso, ma che sbolliva subito. Non era di quelli che covano la rabbia. Mia madre poi si divertiva quando lo vedeva tornare a casa con delle cose che non sapeva neppure dove le aveva prese. Erano gli scherzi della distrazione del babbo. Ricordo che una volta io ero malata e babbo e mamma erano andati in farmacia a comprare le medicine. Quando tornarono a casa mamma disse: "Ettore, dammi le medicine per la putéla". In quel momento dalle sue tasche uscì ogni tipo di farmaco. Lui aveva preso distrattamente tutto quello che sul banco era a portata di mano. Una volta tornò a casa con più soldi di quando era uscito. Ricordo che diventò matto per scoprire come aveva fatto e a chi aveva preso quel denaro. Era distratto, ma anche molto buono. Quando un pittore si presentava da lui per chiedergli un po' di soldi, lui, se poteva, lo aiutava".

Italo Svevo era anche goloso?

"Sì. La torta di ricotta e la crema fritta gli piacevano molto".

Qual'è l'ultimo ricordo che ha di suo padre, signora Letizia?

"E' purtroppo quello della sua morte. Come lei saprà, morì in seguito ad un incidente automobilistico mentre tornava da Bormio. Ricordo che quando mi vide disperata disse: "Non piangere Letizia. Non è niente morire". Poi ad un certo punto chiese una sigaretta. Il dottore non gliela concesse e lui esclamò: "Questa sarebbe stata proprio l'ultima". Era molto sereno. Ricordo che babbo ha detto a mamma che era bionda: "Adesso, Livia, xe proprio l'ora che mora perchè te staria cussì ben i veli de lutto". Quando mio padre morì era il 1928 ed aveva sessantasette anni".

                                                                Luciano Simonelli


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