Il fumo: Zeno pensa che la causa della sua malattia sia il vizio del fumo. Decide di liberarsene, prima con propositi precisi fatti a se stesso e vincolati a date scritte un po' ovunque, sottolineate da un solenne U. S. (ultima sigaretta) e poi facendosi ricoverare in una casa di cura, dove però non passa nemmeno una notte, perchè, preso dalla sua solita irragionevole gelosia per la moglie, corrompe l'infermiera e se ne torna bellamente a casa, dove la moglie, fedelissima, lo accoglie con un benevolo sorriso.
La morte del padre: si narra delle civili incomprensioni che dividono padre e figlio. Il padre ha difficoltà a convincersi che il figlio, sempre pronto a ridere a sproposito, sia effettivamente pazzo. Il figlio da parte sua è piuttosto ribelle, ma solo in teoria, dentro di sé insomma, perchè oggettivamente si può dire che sia un ragazzo abbastanza tranquillo ed ubbidiente. Ma ecco che il padre si ammala di edema cerebrale. Si mette a letto. Il figlio lo vuole curare, lo costringe, anche perchè il medico così gli ha consigliato di fare, a stare a letto, e quando il padre vuole a tutti i costi alzarsi egli usa la forza. Il padre con un ultimo sforzo alza il braccio e muore. La mano ricadendo colpisce il volto del figlio. Uno schiaffo. Volontario? Questo dubbio Zeno se lo porterà dentro per tutta la vita.
La storia del matrimonio: Zeno incontra in Borsa Giovanni Malfenti, furbo commerciante, che gli diviene maestro in affari, amico e suocero, nonché suo secondo padre. Giovanni ha una moglie e quattro figlie: Ada, la bella e la seria, Alberta, la più giovane fra le tre da marito e la più vicina allo spirito di Zeno, Augusta, la strabica, ed Anna la più piccola, una bimba. Zeno diventa abituale frequentatore del loro salotto e le intrattiene con storielle amene, di cui l'unica a non compiacersene è proprio quella per cui Zeno le diceva, e cioè Ada. La sua corte ad Ada si complica poi per l'entrata in scena di un rivale, Guido Speier, giovane bello ed elegante e come Zeno suonatore di violino, ma di lui molto più abile. Ada ne è veramente incantata e Zeno è decisamente destinato alla sconfitta, tanto che, attraverso una serie di vicende altamente comiche, che vanno da una seduta spiritica imbastita da Guido e mandata a monte da Zeno per dispetto, alla proposta di matrimonio fatta in successione e per sbaglio a ciascuna delle tre sorelle maggiori, arriverà a fidanzarsi con Augusta, delle tre proprio l'unica che Zeno non avrebbe mai pensato di sposare. Il matrimonio invece si mostrerà azzeccatissimo: Augusta sarà veramente la moglie ideale.
La moglie e l'amante: l'amante si chiama Carla, è una giovane del popolo, che, per continuare i suoi studi musicali, s'affida prima alla beneficenza d'Enrico Copler, amico di Zeno e poi a quella di Zeno stesso. La relazione non turba i rapporti con Augusta, anche perchè ovviamente non ne è a conoscenza. Crea solo spazi e contraddizioni dentro la coscienza di Zeno, ma il modo in cui Zeno li supera ci dà ancora un esempio della sua natura, vale a dire della sua malattia. Carla poi vuole vedere Augusta. Mossa controproducente. Carla ne resta affascinata. Sente un vago rimorso a tradirla. Lascia Zeno e decide di sposare il maestro di musica, che Zeno stesso le aveva procurato. Forse era ciò che Zeno, cui nel frattempo era nata una figlia, voleva e non voleva.
Storia di un'associazione commerciale: racconta della fondazione di una casa commerciale da parte di Guido Speier, e di come viene condotta in malissimo modo. Zeno, messi da parte i vecchi complessi, si offre di aiutarlo nell'amministrazione. Ma Guido è veramente un incapace e l'azienda ha i giorni contati. Un affare sbagliato rende la situazione davvero insostenibile. Guido simula un primo tentativo di suicidio ed ottiene dalla moglie un prestito per risollevare le sorti della ditta. Ma gli errori da parte sua continuano, aggravati anche dalle perdite in Borsa, e così non gli resta che inscenare un secondo suicidio, ma questa volta per una serie di circostanze imprevedibili, gli va male e muore. Zeno si rivela a questo punto abilissimo: giocando in Borsa riesce a dimezzare il debito del cognato e si conquista in parte la stima di Ada, che le sofferenze psichiche hanno precocemente invecchiato. Ada inoltre è anche molto rammaricata perchè Zeno non è andato al funerale di Guido. Zeno, infatti, non è giunto in tempo, perchè, a causa degli impegni in Borsa, è arrivato all'ultimo momento e, inconsapevolmente, ha anche sbagliato funerale. Ada lascia così Trieste e con i figli si reca in Argentina dove i due suoceri la stanno aspettando.
Psico-analisi:
in questo capitolo conclusivo de La coscienza di Zeno, ci sono due passi
illuminanti su ciò che fu per Svevo la questione della lingua, e
più precisamente su varie ambiguità che lo scrittore ci presenta:
il rapporto terapia analitica-invenzione, memoria-emozione e creazione-menzogna.
Una problematica molto moderna, ma vediamo in dettaglio:
"Il dottore presta
fede troppo grande a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi
perchè le riveda. Dio mio! Egli non studiò che la medicina
e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi
che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Una confessione in iscritto
è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo!
Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le
quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero
di ricorrere al vocabolario! E' proprio così che scegliamo dalla
nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe
tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto".
Ed ancora:
"E' così che
a forza di correre dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di
averle inventate. Ma inventare è una creazione, non già una
menzogna. Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano
per la stanza perchè le vediate da tutti i lati e che poi anche
vi toccano. Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose
vive. A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c'erano che
nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio di cui sentivo
l'aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno
spazio per cui io sia passato".
L'atteggiamento sveviano
nei confronti della psicanalisi è qui ed altrove molto ironico.
Egli sa che la ricchezza di una psiche è fatta anche dai materiali
rischiosi che chiamiamo nevrosi, sa che la distinzione drastica fra malattia
e salute è schematica ed improduttiva, sa infine che proprio nella
gestione attiva delle proprie nevrosi risiede il rapporto più sano
possibile con la vita.
"Com'era stata più
bella la mia vita che non quella dei cosidetti sani",
si sorprende a pensare
il vecchio Zeno Cosini. Ed è proprio l'aggettivo "cosidetti" che
sbalordisce il lettore di oggi, è un'anticipazione convinta di certe
tematiche antipsichiatriche e liberatorie che si sarebbero affermate, tra
successi e contraddizioni, solo trent'anni dopo. La coscienza di Zeno è
anche la coscienza della precarietà della lingua in cui lo scrittore
si esprime, la consapevolezza di trovarsi fuori dai canoni della letteratura
posteriore. La diversità di Svevo non è solo linguistica
ma anche culturale: la sua posizione è quella dell'intellettuale
di frontiera. Ciò può apparire un handicap ma al contrario
agisce come fatto positivo che gli permette, ad esempio, di aggredire la
problematica psicanalitica senza nessun complesso d'inferiorità,
ed anzi da un'angolazione ironica tagliente, assolutamente estranea all'ottica
che nei confronti della psicanalisi adottano gli scrittori contemporanei.
Il silenzio di Svevo dal 1898 al 1923 non è un vuoto nel quale improvvisamente
fiorisce La coscienza di Zeno, ma in realtà un periodo d'ininterrotta
riflessione, di scavo profondo e di tensione verso la maturità umana,
culturale ed espressiva, al termine del quale si situa l'esperienza della
fase più alta della sua trilogia romanzesca. La coscienza di Zeno
è una conferma ed una smentita dei due romanzi precedenti. Conferma
l'ossessione tematica dell'autore incentrata sul fallimento e la sconfitta,
e ne smentisce sul piano del linguaggio il determinismo, proprio in quanto
è capace di sviluppare il suo gioco su due tavoli cambiando continuamente
le carte: il tavolo della meccanica sociale mercantile-borghese ed il tavolo
dell'ambiguità della psiche. Ciò che unifica il tutto è
l'ironia, la disincantata "scienza della vita", la coscienza. La coscienza
di Zeno Cosini è, appunto, la sola scienza che egli possieda, ed
il solo suo disperato ed inalienabile bene. Il capolavoro, quindi, si pone
come il momento decisivo e conclusivo di un processo tutt'altro che casuale
e caratterizzato da sporadici sprazzi di felicità creativa, vissuto
piuttosto dallo scrittore attraverso una ricerca condotta per venticinque
anni in coerenza col principio che:
"Scrivere a questo
mondo bisogna, ma pubblicare non occorre".
Al di là della
"leggenda" del trentennale silenzio, quindi, è ormai chiaro che
Svevo, malgrado il peso delle delusioni e l'incomprensione che circondava
la sua opera, abbia continuato a lavorare non per vizio, ma nella convinzione
che la lenta elaborazione della sua arte esigeva un impegno tutt'altro
che sporadico, proteso alla ricerca dei significati più interni
e segreti, in un certo senso da sempre già oltre la preoccupazione
dei riconoscimenti ufficiali. Ne fanno fede diversi passi tratti dalla
sua autobiografia:
"I suoi amici possono
testificare ch'egli mai ammise che i suoi romanzi valessero poco. Sapeva
chiaramente dei loro difetti ma non si decideva d'attribuire a questi il
suo insuccesso. Era perciò vano un altro sforzo ulteriore. Credette
sempre che anche a chi ha il talento di fare dei romanzi spetti una vita
degna di essere vissuta. E se per ottenerla bisognava rinunziare all'attività
per cui si era nati, bisognava rassegnarsi".
Ed ancora:
"Egli s'era messo
a scrivere La coscienza di Zeno. Fu un attimo di forte travolgente ispirazione.
Non c'era possibilità di salvarsi. Bisognava fare quel romanzo.
Certo si poteva fare a meno di pubblicarlo, diceva".
Nel romanzo la divisione
tra autobiografia e racconto è risolta proprio distruggendo la concezione
strutturale del romanzo classico, e mettendo in atto una soluzione in parte
già sfruttata per i due romanzi precedenti, ma che qui si evolve
e si completa facendo di questo libro l'anti-romanzo per eccellenza. Svevo
si trova tra le mani un semilavoro che non può diventare un "prodotto
finito" se non restando un'opera aperta, involontaria, un testo insofferente
verso qualsiasi ideologia, in modo tale che le stesse teorie freudiane,
sebbene molto importanti per la genesi del romanzo, vengono utilizzate
solo a livello culturale, come puri strumenti tecnici. Lo stesso Dottor
S., che nel libro funge da portavoce di esse, è un personaggio piò
ridicolo che rispettabile. Svevo mediante la scrittura rifiuta la gabbia
della scienza assunta come dogma e depositaria della verità vista
in modo assoluto. La sua prassi terapeutica è qualcosa che egli
non riesce ancora a definire in modo chiaro. Incerto tra scienza e filosofia
si rivolge addirittura allo psicanalista triestino dottor Weiss, per chiarire,
prima di tutto a se stesso, se il suo ultimo romanzo può essere
considerato o meno un'opera psicanalitica, ricevendone una secca smentita.
La coscienza di Zeno fonda un modello di letteratura diverso, ma l'autore
non ne è consapevole fino in fondo. Nel romanzo dominano l'imprevedibilità,
l'ambiguità e perfino la falsità, dal momento che la memoria
stesa da Zeno è sicuramente parziale e sviluppa solo i fatti utili
alla sua causa essendo egli un nevrotico in cura analitica. Cos'è
attendibile di questo romanzo? Il lettore non può fidarsi del protagonista
e tantomeno del suo psicanalista, dal momento che il Dottor S. agisce in
modo scorretto e puerile, decidendo di pubblicare la memoria del paziente
per vendicarsi dell'interruzione della terapia. è quindi chiaro
che l'attendibilità della sua prefazione al racconto di Zeno è
assai scarsa. Ci accorgiamo così che il romanzo è costruito
su una rimozione: quella della verità. La verità è,
per Svevo, l'equivalente della salute: due valori assolutamente privi di
valore assoluto che sono sottoposti all'inevitabile svolgersi della vita.
Alla verità lo scrittore contrappone la parodia, cioè il
suo contrario. La verità implica l'immobilità, la parodia
il movimento. L'unico senso de La coscienza di Zeno è quello del
movimento, del rovesciamento costante, dell'instabilità costitutiva
del mondo e della scrittura, ed è un senso alla cui costruzione
è chiamato interrogativamente il lettore. La dimensione tragica
della vita, così palesemente attiva ed evidenziata nei due primi
romanzi, è mutata in questo, fin dall'inizio, verso la dimensione
umoristica, uscendone sicuramente arricchita quanto a forza di convinzione
drammatica. Svevo sa perfettamente che l'epoca della riproducibilità
tecnica dei sentimenti permette di toccare il tragico solo attraverso il
comico e si comporta di conseguenza. Il preambolo pone il lettore all'interno
del meccanismo. Non siamo più di fronte all'espediente del romanzo-pretesto,
la finzione romanzesca è dissipata. Il tentativo che Zeno fa di
raccontare la propria vita, ora che è giunto ad un'età avanzata,
è dato appunto come tentativo di riacquistare la salute, l'equilibrio
e nulla più. Il "Proust italien", come Svevo è stato definito,
persegue una strategia assolutamente originale: Proust si dissipa e si
realizza in un inseguimento di nomi di paesi e di persone, di amori e di
amicizie irrimediabilmente consumati, in cui celebra il suo rito idolatrico,
il suo culto dell'effimero e non dell'eterno. Se idolatria è il
Tempo perduto, la verità è il Tempo ritrovato, mediante un
recupero in cui la memoria involontaria gioca un ruolo centrale. Svevo
si serve di altri mezzi: la sua non si pone come una memoria mitica, come
passaporto per sfuggire al silenzio ed alla morte. Egli realizza un'operazione
in cui la volontarietà della memoria è ancora molto forte,
e vale come strumento per chiarire il senso della propria e dell'altrui
esistenza, in sostanza senza sperarne privilegi o risarcimenti. Il buonsenso
laico e borghese di Svevo, come la sua matrice culturale, non possono essere
confusi col decadentismo analitico che circola nelle pagine di Proust.
Piuttosto, comune ad entrambi gli scrittori è l'esigenza di apprestarsi
nuovi moduli di lavoro fondati sull'autobiografia come momento di sintesi
rispetto alla frantumazione dell'esperienza; per cui tutt'e due i grandi
romanzieri della crisi della coscienza borghese corrodono qualcosa di più
che una tecnica letteraria, agiscono in un certo senso al di là
della letteratura. Assai più letterato di loro risulta invece Joyce.
Certo è che la particolare forma a episodi "autonomi", ognuno dei
quali costituisce una sorta di stazione a ritroso che dal passato si dirige
verso il presente di volta in volta incamerando gli elementi di quella
che precede, non era pensabile senza il "rifiuto" della letteratura esplicitamente
dichiarato dal triestino. La vitalità del romanzo ha origine da
questa spallata che lo scrittore dà alle proprie abitudini di impianto
e di racconto, per entrare nella propria materia non più come descrittore
e commentatore, ma come interprete ed infine elemento attivo. L'autobiografia
diventa a questo punto una via obbligata, e Svevo se ne serve con una libertà
pari alla distanza ironica che intromette fra sé e questa materia.
Il terzo capitolo Il fumo, cala il lettore in una delle situazioni chiave
del romanzo. Ancora una volta, ci troviamo in presenza di uno dei perenni
miti negativi di Svevo: il proposito di riscatto dei protagonisti e la
sua mancata realizzazione, che inevitabilmente li frustra. Ma ora l'oggetto
del proposito e la causa della frustrazione sono assolutamente irrisori
e banalizzati: la battaglia si svolge fra Zeno e la propria volontà
ed il motivo è l'ultima sigaretta. Zeno si abbarbica a continui
proponimenti di non fumare più, che d'altronde eluderà sistematicamente
rimuovendo poi sempre il rimorso ed il senso di colpa che gliene derivano.
Il dramma propende al comico, all'umoristico. La materia è degradata
rispetto ai romanzi precedenti, ma è subito più decisamente
interna, dotata ormai di quell'ambiguità e contraddittorietà
che Svevo attribuisce all'esistenza, e con la quale intende concorrere
e misurarsi, operando su un sistema organico di decentramento e di dislocazione
ininterrotta:
"Adesso che son qui,
ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto
la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità?
Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l'uomo ideale e forte
che m'aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perchè
è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza
latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile,
ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno
esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da
proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell'igienista
vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto
malato tutta la vita?"
La dialettica tra malattia
e salute è un altro dei motivi centrali del romanzo, anch'esso ambivalente
ed in continuazione slittante dal piano fisiologico a quello psicologico.
In realtà, salute, giovinezza e naturale equilibrio psichico sono
i doni di un'età fortunata a cui si contrappongono i tristi portati
della senilità: la cagionevolezza, la sensazione di esser fuori
dal gioco, la finta rivalsa dell'esercizio della coscienza, che è
in fondo il vizio più malinconicamente vero della parabola esistenziale.
La ricchezza del romanzo si apre fin dalle prime pagine senza segreti:
Svevo lavora ormai non più secondo la scala di una progressione
logico-narrativa, ma secondo modi che, come abbiamo già evidenziato,
obbediscono all'analogia ed all'aggregazione, all'associazione di idee
ed al libero fluire della memoria. Lo schema non preesiste, ma sembra crearsi
spontaneamente di volta in volta, nel tortuoso ed ineguale percorso dell'analisi.
Il lettore è introdotto nell'universo di Zeno, nel flusso tra reale
e fittizio del suo tempo e ciò avviene senza schermi protettivi,
dal momento che il personaggio assicura di esporsi intero fin dai momenti
iniziali. L'episodio della tentata disintossicazione in casa di cura è
tipico dell'atmosfera autodenigratoria e dell'andamento da commedia degli
equivoci che occupano buona parte del libro: questo "punitore di se stesso"
che è Zeno non reggerà neanche una notte nella clinica, ma
intanto, prima di ubriacare la vecchia infermiera e di tornarsene a casa,
fa in tempo a farsi beffe anche del medico che lo visita. Nell'episodio
successivo, cioè quello che racconta la morte del padre, Svevo sposta
la tonalità sul tragico. Il padre di Zeno ha fama di essere un abile
commerciante anche se in realtà i suoi affari sono diretti dall'attivo
signor Olivi. Zeno nota che:
"Nell'incapacità
al commercio v'era la somiglianza fra di noi, ma non ve ne erano altre;
posso dire che, fra noi due, io rappresentavo la forza e lui la debolezza
".
Dov'è in fondo
la vera forza di un uomo pigro e distratto come risulta essere Zeno Cosini?
Probabilmente nella caparbietà con cui insiste a difendere dall'altrui
intrusione le riserve dei suoi privati egoismi, nell'ostinazione con cui
rifiuta di rinunciare ai piaceri minuti della vita, della sensualità
e dell'orgoglio, ma più ancora, secondo il rimprovero paterno, nella
sua tendenza a ridere delle cose più serie. Ma, si chiede Zeno (e
con lui Svevo), cos'è serio a questo mondo? La serietà è
dietro le apparenze, e riguarda un sempre più ristretto numero di
eventi e di fenomeni. La malattia e la morte del padre si muovono su un
piano che amplifica in chiave tragica la situazione drammatico-umoristica
che il narratore-paziente Zeno ha definito come:
"Una analisi storica
della mia propensione al fumo",
vizioso eccesso al quale
egli attribuisce anche l'origine della straripante carica sessuale da cui
quasi si sente perseguitato. La sensualità diventa malattia, irrefrenabile
erotismo, dissipazione energetica e quindi colpa da espiare. Comanda l'imperativa
etica borghese-mercantile, per la quale il momento ludico ed il gioco erotico
rappresentano pulsioni e fenomeni pericolosi, alla lunga eversivi di un
ordine e comunque poco seri ed indegni di essere esibiti. Il sognatore
Zeno, guarendo dall'intossicazione da fumo, guarirà anche, secondo
lui, dal suo furioso appetito sessuale. L'evento che segna profondamente
il futuro di Zeno è il famoso schiaffo che il padre moribondo lascia
cadere sul volto del figlio, come una punizione, al momento del trapasso.
Gesto automatico o estremo sforzo per rimanere aggrappato alla vita? Esecuzione
di una volontà o atto casuale? Lo schiaffo subisce nella memoria
di Zeno la metamorfosi cui vanno soggetti tutti i fenomeni sgradevoli della
sua esistenza, in genere con segno positivo. Già durante il funerale,
non diventa più l'ultima prova d'incomprensione e d'ostilità
di un uomo il cui corpo giaceva ancora "superbo e minaccioso", ma quasi
il saluto composto di qualcuno che non si decide a lasciarci. Quella del
padre è una forza che non può più offendere, ma Zeno
non lo fa notare. La sua abilità nell'evasione, la capacità
impeccabilmente tempestiva di servirsi di uno strumento come la sublimazione,
la facoltà di rimuovere sistematicamente gli ostacoli che intralciano
la sua libertà sentimentale e psicologica, costituiscono in realtà
il potenziale più consistente della sua debolezza. Il fatto è
che entro i confini del suo territorio egli risulta il più forte
e finisce per essere il vincitore. Nessuno potrà violare la sua
coscienza: Zeno ha tra l'altro il merito di non elevarsi un piedistallo,
di non assumere posizioni eroiche. Se gli è consentita questa libertà,
che è pur sempre un privilegio, lascia intuire che si tratta di
un patto sociale stretto ben prima di lui, di cui egli fruisce e che gli
permette addirittura di presentarsi come "antieroe". Paradossalmente Zeno
trasforma i suoi scacchi in affermazioni vantaggiose. Così è
negli affari, in cui sovente la sua inettitudine si rivela provvidenziale;
così è nell'amore e nel matrimonio. Innamorato della bellissima
Ada Malfenti, che lo respinge per sposare l'amabile e mondano Guido Speier,
egli sposerà la brutta ma dolcissima sorella di lei, Augusta, quasi
per forza d'inerzia e per necessario autoconvincimento che sia la donna
giusta. Nella stessa serata Zeno si dichiara ad una dopo l'altra delle
tre sorelle Malfenti, quasi in preda ad una smania di autoflagellazione.
Due risposte negative: Ada e Alberta. Una risposta affermativa: Augusta.
L'ostilità di Ada e della madre, una volta che le cose si sono messe
per il verso da loro desiderato, si trasforma in affettuosa considerazione
per Zeno. Con un senso della durata temporale di straordinaria suggestione
fluidificante, Svevo gioca questa parte del romanzo su molti piani, mediante
rimandi continui e continue rispondenze. Il presente, cioè il tempo
dell'intelligenza che assiste e registra, s'insinua nel passato vissuto
e sollecita i fermenti del passato ipotetico. Zeno agisce da regista e
le fanciulle da attrici, nel momento esatto in cui il giovane parla di
cose che gli sono avvenute in un passato imprecisato per interessarle e
guadagnarne la simpatia. Ma di ciò il lettore ne è informato
da un vecchio che racconta di se stesso giovane, rivedendosi nell'atteggiamento
di narratore per un pubblico che vuole coinvolgere nel suo piccolo mito,
nella costruzione di sé come individuo di eccezione. Marito involontario,
Zeno si è lasciato scegliere. Del resto la sua intera esistenza
brilla per l'assenza di scelte precise, eppure egli riesce sempre, stranamente,
ad imboccare la strada giusta. La sua vera vocazione è quella di
un uomo che evita il rischio sotto ogni forma, e si crea un involucro d'ipocondria,
di malattia immaginaria, di neutralità di fronte ai conflitti esistenziali,
dal quale assistere senza bruciarsi al rovente spettacolo della realtà.
Questa è la vera coscienza del personaggio Zeno Cosini: ricerca
apparentemente svagata e casuale della consapevolezza del vivere, e al
contempo difesa della propria mancanza di qualità. La pratica della
memoria non come rimpianto ma come ricostruzione attiva, a questo punto,
è data addirittura come polemica nei confronti dei valori borghesi
correnti: intraprendenza, spregiudicatezza, senso pragmatico e attivismo
pratico; valori tutti volti in primo luogo all'affermazione economica,
allo scopo del lucro e del profitto. La moglie Augusta è la difesa
dal rischio, l'amante Carla l'avventura senza rischio. I sentimenti di
Zeno scivolano continuamente dal drammatico al comico, ed i poli umani
di quest'oscillazione sono rappresentati appunto dalla moglie e dall'amante,
come già in Senilità Angiolina ed Amalia erano state le personificazioni
del piacere colpevole e della purezza sacrificata. Zeno ha lasciato da
parte il "mondo sano e regolato" organizzatogli attorno da Augusta per
avventurarsi nell'incognita del proibito: ha lasciato la "salute" per entrare
nella "malattia". Quando avrà superato suo malgrado l'infatuazione
per Carla non sarà per questo guarito dalle sue inquietudini e dalle
sue nevrosi. I motivi profondi che hanno spinto lo scrittore a realizzare
il suo romanzo-pretesto sono ormai chiari. Nell'ultimo capitolo del libro
Zeno-Svevo chiarisce come non gli è possibile rinunciare alla sua
identità più autentica, e si libera mediante l'ironia dagli
impacci che gli hanno cucito addosso le strutture terapeutiche:
"Da un anno non avevo
scritto una parola, in questo come in tutto il resto obbediente alle prescrizioni
del dottore il quale asseriva che durante la cura dovevo raccogliermi solo
accanto a lui, perchè un raccoglimento da lui non sorvegliato avrebbe
rafforzato i freni che impedivano la mia sincerità, il mio abbandono.
Ma ora mi ritrovo squilibrato e malato più che mai e, scrivendo,
credo che mi netterà più facilmente del male che la cura
m'ha fatto. Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per
ridare importanza ad un passato che più non duole e far andare via
più rapido il presente uggioso".
La rottura col trattamento
psicanalitico determina anche una frattura nel flusso cronologico degli
avvenimenti narrati. Di colpo ci troviamo a tu per tu col presente. Ed
il presente è, ancora una volta, una combinazione di tragedia e
grottesco, di tristezza e di riso.