TRASFIGURAZIONE E POESIA

 

 

Il testo poetico può essere considerato un vero e proprio atto di comunicazione: si tratta, difatti, di un atto di discorso perché, in primo luogo, è il risultato di un processo creativo e fattuale, e perché esso è un testo in cui è presente un complesso sistema di comunicazione.

Secondo le teorie dello studioso di semiotica Roman Jakobson, è possibile distinguere tra diverse funzioni linguistiche:

 

  Referenziale - decreta “cose” reali (“Questo è un gatto”);

  Emotiva - fornisce un’espressione diretta dell’atteggiamento del soggetto rispetto a ciò di cui parla (ne sono un esempio le interiezioni utilizzate nel linguaggio orale);

  Conativa - è la funzione espressa dall’utilizzo del vocativo o dell’imperativo (persuasione);

  Fàtica - corrisponde a tutti quegli sforzi che si attuano per evitare che un discorso “precipiti” (di largo uso sono i saluti, i convenevoli e gli auguri):

  Metalinguistica - comprende tutte quelle frasi come: “come hai detto, scusa?”, “come posso dire?”, “cioè…”;

  Poetica - mira ad attirare l’attenzione del destinatario sulla forma del messaggio.

 

Proprio  alla  luce di  quest’ultimo  punto,  la funzione poetica  è  una funzione autoriflessiva,  in quanto nasce per attirare l’attenzione  su di sé,  cioè sul testo poetico;  quest’ultimo costituisce il codice  attraverso il quale  avviene lo scambio  di informazioni fra l’emittente (il poeta stesso,  oppure un personaggio da lui creato) ed il ricevente (il lettore o l’ascoltatore; il destinatario può essere esplicito  nel caso  che vi sia un  “Voi”  od  un  “tu”  all’interno del testo,  oppure implicito,  per esempio un compagno comprensivo, consolatore, un rivale,…).

 

  Canale (composizione scritta)

Contatto (composizione e pubblicazione)

 

EMITTENTE      MESSAGGIO RICEVENTE

(Poeta)                                                                   (Lettore)

Codice (testo poetico)

Contesto (argomento trattato dai comunicanti)

 

Aldilà, comunque, di ogni tipo di speculazione (che peraltro non troverà mai fine, considerando che lo stesso Jakobson rivide la sua opera più volte), ciò che garantisce la vera base di una forma poetica è il rapporto indissolubile tra il piano semantico (=significato) e quello fonetico (=significante) dei segni che formano il messaggio comunicato dal poeta: in generale è possibile dire che siamo davanti ad un rapporto di subordinazione, se si considera come la parola ed il verso siano il semplice ma necessario codice attraverso cui si plasma l’impulso poetico.

All’inizio del secolo scorso tale rapporto letterario fu stravolto da una nuova tendenza, che è possibile riconoscere all’interno della corrente simbolista e, più in generale, decadentista; in particolar modo Gabriele D’Annunzio guida questo cambiamento (e forse è proprio questo l’elemento della sua poetica che più influenzerà la letteratura posteriore), operando mirabilmente con versi e parole.

 

 

 Quell’ardore incontenibile

 

  Piccolo superuomo

 

 

 

 

La figura di D’Annunzio è tuttora analizzata e non accenna a voler smettere di suscitare perplessità in chi vi si avvicina; caratterizzato da un atteggiamento contraddittorio nell’approccio al mondo esterno, l’abruzzese ricerca, da subito, la folla, abbraccia una discutibile politica d’assalto, fa mostra di voler esprimere l’animo eroico e sprezzantemente arrogante di cui è consapevole; allo stesso tempo, però, vaga, sfuggente, in cerca di luoghi sicuri ed appartati (si rifugia nel Vittoriale sulle rive del Lago di Garda); in questo, quindi, consiste il suo “superomismo”, che tuttavia si rende più torbido mescolandosi con il bisogno di essere sempre più esteta: egli ricerca l’estetismo assoluto, agognando per una bellezza formale che diventerà l’unica giustificazione della sua poesia. La vita deve essere vissuta come un’opera d’arte (o, se vogliamo, è l’arte che costituisce interamente ciò che è vita), perché essa è l’unica epifania cui si sente destinato. Tutto questo ricade, poi, nella ricerca di un piacere sensuale ed effimero, carnale e sublime.


 

  Perché scrivere (e per chi)

Le righe precedenti  hanno  solo riassunto  le tematiche  che,  in modo pregnante e  ossessivo, D’Annunzio matura e divulga più che può; egli scrive  per  esprimere  ciò che il suo corpo sente, percepisce,  e questo messaggio iperbolico deve assolutamente essere vissuto  dal poeta  e  dal lettore  in  contemporanea. Il poeta,  però,  non riesce  a fare dono di questo  ad  un’umanità  indistinta  (probabilmente  non se ne pone  nemmeno  il  problema):  egli si innalza, si distingue dalla massa, forgiando versi per poche, raffinate persone, creando così “un’arte di élite”.

  Come?

Nelle produzione di D’Annunzio è riscontrabile una trasfigurazione fantastica e simbolica (eccitazione delle parole), riconducibile al simbolismo ma in maniera più superficiale: il poeta, infatti, apprezza l’aspetto di musicalità del simbolo, non il suo significato intrinseco; tutto questo per suggestionare, scuotere, creare attrazione nel profondo dell’animo del lettore.

 

L’adozione di particolari elementi stilistici pone la parola in una condizione di estasi mistica per cui il verso è tutto[1], pur essendo, in molti casi, privo di significato logico: un eccessivo preziosismo lessicale, lo sfruttamento dei rapporti interni del linguaggio simbolista, l’utilizzo di strutture semplici e ripetitive; ancora, l’esaltazione degli elementi sonori, coloristici, visivi e, più in generale, sensuali.

 

 

         

[1] “(…) Il verso è tutto. Nella imitazion della Natura nessun istrumento d'arte è più vivo, agile, acuto, vario, multiforme, plastico, obediente, sensibile, fedele. (…)”, Il piacere, Gabriele d’Annunzio.