Nonostante tutte le incertezze
e le zone d’ombra, grande era stata la speranza che una pila nucleare potesse
costituire una possibilità pratica.
Quello che Fermi conseguì
il 2 dicembre ’42 fu la prova che tale speranza non era mal fondata, che
la possibilità di costruire un reattore nucleare con i materiali
disponibili era reale e che il reattore poteva essere controllato.
Il reattore di Fermi
aveva ottenuto i risultati previsti, ma poteva dare poco di più:
non era dotato di schermo biologico per proteggere gli operatori dall’irradiazione
neutronica, né di sistema di raffreddamento. Era evidente che occorreva
una pila di maggiori dimensioni, in grado di fornire non solo maggiori
informazioni ai progettisti, ma anche le mattonelle irradiate di cui i
chimici avevano bisogno per sviluppare un processo di separazione. La costruzione
venne iniziata nell’aprile’43 e la pila arrivò alla divergenza nel
novembre successivo.
Nel frattempo, con l’impiego
delle costanti nucleari che erano state determinate nella pila di Fermi,
venivano considerati tutti i possibili schemi alternativi per le pile di
produzione non più in scala ridotta. Alla fine venne scelto come
fluido refrigerante l’acqua, ma c’era preoccupazione per la sicurezza:
l’acqua refrigerata avrebbe assorbito neutroni e in caso di cedimento del
sistema di rifornimento dell’acqua a uno qualsiasi dei canali, l’acqua
di tale canale sarebbe stata espulsa sotto forma di vapore e i neutroni
da essa assorbiti in precedenza avrebbero potuto provocare altre fissioni
e così rendere la pila supercritica. La temperatura sarebbe potuta
salire fino a provocare la fusione dell’uranio, liberando i prodotti di
fissione e il plutonio formatosi dall’uranio stesso. Un simile evento avrebbe
messo in pericolo di vita la popolazione per un raggio di 50 Km. Si decise
di tenere gli impianti lontani dai centri abitati.
Era stato deciso di costruire
tre pile, ciascuna con una potenza termica di 250 megawatt. Ogni
pila venne costruita con la più pura grafite ottenibile: per ridurre
al minimo i pericoli di contaminazione superficiale, questi blocchi vennero
lavorati sul posto. Canali orizzontali attraversavano l’insieme dei blocchi
e in ciascuno di questi canali correva una tubazione di alluminio, nella
quale venivano inserite le mattonelle di uranio. L’acqua refrigerante scorreva
nell’intercapedine tra la tubazione e le mattonelle e andava a confluire
in appositi serbatoi, dove se ne misurava la radioattività prima
di scaricarla nel fiume Columbia. Attraverso altri canali si assicurava
la penetrazione nella grafite delle barre di controllo e delle barre per
lo spegnimento di emergenza. Il complesso che costituiva il nucleo era
racchiuso da uno spesso schermo protettivo di calcestruzzo, attraversato
da fori che dovevano corrispondere esattamente ai canali praticati nella
grafite. Ma il problema di fabbricare mattonelle legate insieme risultava
inabbordabile. Venne elaborato un processo con il quale la barra
di uranio veniva legata al contenitore di alluminio mediante una lega di
silicio-alluminio. Soltanto nell’agosto ’43 si raggiunse la certezza che
era possibile legare le mattonelle legate.
In settembre, Fermi inseriva
la prima mattonella nel primo reattore, che venne portato in potenza il
27 settembre. Tra la sorpresa e la costernazione dei fisici, esso si spense
presto: i fisici, infatti, operando sulle pile sperimentali e sui prototipi,
non avevano scoperto che uno dei prodotti di fissione a breve periodo di
decadimento che si formano è lo xeno. Questo assorbe avidamente
neutroni, cosicché occorreva disporre di un eccesso di reattività
per compensare l’avvelenamento da xeno. Fortunatamente erano stati disposti
nella pila alcuni canali in più e, servendosi di questi, fu possibile
portare i reattori alla potenza di progetto. Le prime mattonelle irradiate
vennero scaricate il giorno di Natale del 1944.