La crisi che colpisce
tutta l’Europa dopo la prima guerra mostra i suoi effetti ancora più
devastanti in Italia. Una guerra di quattro anni, con oltre 600.000 morti
e almeno altrettanti feriti, provoca inevitabilmente contraccolpi economici,
sociali e morali, a cui si sommano risentimenti e rancori, diffusi un po’
in tutti gli strati della popolazione.
Si diffonde infatti un
generale senso di delusione e molto più spesso di rabbia per l’inconsistenza
di tutti quei benefici che si credeva sarebbero giunti con la vittoria,
per la mancata annessione di Fiume e per la esiguità dei vantaggi
territoriali rispetto agli sforzi sostenuti e alle perdite subite. Si parla
pertanto di “vittoria mutilata” e di “schiaffo” che le potenze vincitrici
ci avrebbero inflitto; in tale ottica va vista anche l’avventura fiumana
condotta da Gabriele D’Annunzio.
Dalle elezioni del 1919
emergono chiaramente il declino del liberalismo e il successo dei partiti
di massa, socialisti e popolari, favoriti dal nuovo sistema elettorale
maggioritario. Nel 1920 Giolitti torna al governo per il suo quinto e ultimo
ministero, ma, nonostante la sua forte personalità, non è
in grado di eliminare le tensioni interne e di guidare con mano ferma la
complessa situazione politica, nei confronti della quale i suoi metodi
di gestione del potere, che tanti risultati avevano dato prima della guerra,
si rivelano adesso inefficaci; in particolare la classe dirigente liberale
trova difficile controllare sia le forze socialiste, sia il nuovo partito
fascista, nato come reazione alle lotte sociali.
Sul fronte sindacale
e operaio, l’episodio più rilevante è l’occupazione delle
fabbriche, avvenuta nel settembre 1920, ma destinata a fallire perché,
chiusa nei limiti delle officine, non riesce a coinvolgere l’intero paese.
Le elezioni del maggio
1921, pur registrando un avanzamento delle forze liberaldemocratiche, non
tale però da assicurare loro la maggioranza nel Parlamento, vedono
l’ingresso alla Camera di una pattuglia di 35 deputati fascisti, guidati
da Mussolinii; e mentre cresce il clima di
violenze e di tensioni, Giolitti è costretto alle dimissioni. Da
questo momento alla guida del vecchio Stato liberale si succedono due governi
sempre più deboli e inconcludenti, presieduti rispettivamente da
Ivanoe Bonomi e da Luigi Facta, finché nell’ottobre del 1922 avviene
la marcia su Roma e si costituisce il governo di coalizione Facta-Mussolini,
che ottiene la fiducia del Parlamento.
Da allora Mussolini
inizia a liquidare lo Stato liberale, attuando una serie di violenze e
di misure repressive, che, unite ai brogli elettorali nel corso delle elezioni
del 1924, la cui denuncia costerà la vita al deputato socialista
Giacomo Matteotti, conducono la vita democratica al collasso. L’assassinio
di Matteotti sembra offrire un’ultima possibilità alle forze di
opposizione di sbarazzarsi del fascismo, ma ancora una volta le reciproche
diffidenze degli oppositori e l’atteggiamento della monarchia fanno fallire
questa estrema opportunità per un ritorno alla democrazia. Nel gennaio
del 1925 inizia la dittatura vera e propria, con il famoso discorso del
“duce” in Parlamento. I partiti vengono sciolti, si varano leggi liberticide,
migliaia di oppositori vengono mandati in carcere o al confino, mentre
il regime organizza il consenso attraverso le efficienti strutture di propaganda,
approfittando anche abilmente di una fase di ripresa economica che durerà
sino al 1929. Sempre nello stesso 1929, il Concordato con lo Stato del
Vaticano chiude la lunga questione rimasta aperta fin dal 1870.
La crisi economica del
1929 coinvolge l’Italia in misura minore rispetto agli altri paesi, al
punto che il governo tenta, fra il 1930 e il 1934, un rilancio dell’economia
attraverso grandi lavori pubblici, e adotta nuove misure di politica sociale.
In tal modo il fascismo recupera un largo consenso, confermato dalla ripresa
della politica coloniale che culmina nella brutale aggressione all’Etiopia,
e che si concluderà con la proclamazione dell’impero (1936).
La guerra d’Etiopia determina
anche importanti conseguenze politiche: Mussolini,
per ridurre l’effetto delle sanzioni decretate contro l’Italia dalla Società
delle Nazioni; inoltre, per evitare l’isolamento internazionale, oltre
che per naturale affinità di intenti, si accosta alla Germania di
Hitler, dando luogo prima all’asse Roma-Berlino e poi al “patto d’acciaio”.
In tal modo unisce fino in fondo la propria sorte a quella di Hitler e
al suo folle disegno di dominio mondiale.
Tuttavia al momento dello
scoppio della guerra, l’Italia
resta neutrale. L’intervento nelle ostilità avviene a distanza di
quasi un anno, nel 1940, ed è deciso ipotizzando una rapida conclusione
del conflitto; previsione clamorosamente sbagliata, che getta il paese
in una lunga guerra dall’esito che non tarda a rivelarsi tragico, soprattutto
da quando la Germania decide di invadere la Russia.
Nel luglio del 1943 il
regime fascista crolla, Mussolini viene arrestato
e la guida del governo è assunta dal generale Pietro Badoglio, che,
dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia, l’8 settembre firma l’armistizio
con gli Angloamericani. Mussolini, liberato poco dopo dai Tedeschi, fonda
la Repubblica sociale italiana, ultima disperata espressione del fascismo
morente. L’Italia è divisa in due, con le forze di occupazione nazista
che lentamente si ritirano dal paese incalzate dagli alleati. In tale situazione
l’Italia resterà circa un anno e mezzo; la liberazione avverrà
nell’aprile del 1945, grazie anche al contributo della lotta di Resistenza
partigiana: un fenomeno questo presente in tutti i paesi occupati dai nazisti,
che assume però da noi una connotazione particolare, di riscatto
nazionale e di laboratorio politico in cui si preparano le forze che si
porranno alla guida di uno stato uscito da venti anni di fascismo e distrutto
dalla guerra.