PARLA CHE TI VEDO

"Buongiorno, mi chiamo Gianluca Musillo e sono uno studente di liceo scientifico"

 

Il gesto rappresenta un’efficace modalità espressiva, di cui si fa certamente abbondante uso quando si parla (per enfatizzare il messaggio che si vuole comunicare), per oltrepassare alcune barriere (basti pensare a quando è interposta una parete di vetro fra due persone che devono scambiarsi un’informazione); infine esso può diventare elemento rappresentativo di una comunità di persone a carattere socio-politico (il “pugno chiuso comunista”, il segno di “vittoria” compiuto con indice e medio, sino ai gesti che esprimono grande volgarità), in cui niente di meglio del gesto rappresenta un determinato messaggio o appartenenza al gruppo.

 

                                         

 

Tutto questo, però, esula dall’utilizzo esclusivo dei segni, evento che accade quando fra emittente e ricevente non esiste nessun altro tipo di mezzo espressivo, come nel caso di due individui sordi.

Sarebbe presuntuoso volere esaurire in modo totale un argomento così vasto e delicato come quello della lingua dei segni: non si tratta di un semplice linguaggio, ma di una ricca e potente eredità della cultura sorda, in modo, se possibile, maggiore delle lingue parlate.

La Lingua dei Segni sfrutta il cosiddetto canale visivo-mimico-gestuale, ma non si tratta di un semplice gesticolare legato alla lingua vocale usata nel paese di appartenenza di una data comunità di sordi: essa è un linguaggio che possiede regole morfo-sintattiche sue proprie, una sua storia ed un suo lessico; in generale le lingue dei segni (ogni nazione è caratterizzata da una diversa lingua dei segni) possiedono una lunga storia, ma solo negli anni sessanta William Stokoe, linguista statunitense, ha cominciato ad analizzare questa particolare forma di comunicazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’alfabeto manuale italiano (sopra) a confronto con quello francese (sopra a destra)

 

Per quanto concerne i segni italiani, essi si sono sviluppati nel tempo fra i sordi del nostro paese e sono stati trasmessi all’interno di istituti e convitti, dove, tra l’altro, non era consentito farne uso: molti educatori, di buone intenzioni, credevano che l’unico modo in cui tutti i sordi potessero inserirsi nel mondo degli udenti fosse l’apprendimento della lingua parlata e della lettura labiale; alcuni insegnanti sono persino arrivati a legare le mani dei bambini per evitare che essi segnassero (metodo oralista). Questo tendenza fu sancita dal “Congresso Internazionale per il miglioramento della sorte dei Sordomuti” (tenutosi a Milano), che nel 1880

 

(…), considerando la non dubbia superiorità della parola articolata sui gesti, per restituire il sordomuto alla società, per dargli una più perfetta conoscenza della lingua dichiara che il metodo orale debba essere preferito a quello della mimica nell’educazione ed istruzione dei sordomuti.

 

Perché una Lingua dei Segni

Sin dall’antichità le persone con deficit più o meno gravi dell’udito hanno subito una vera e propria emarginazione da parte degli udenti, dal momento che si riteneva che esse non possedessero alcuna capacità intellettiva: era opinione diffusa che una persona non si esprimesse e non comprendesse un messaggio vocale perché incapace di pensare e comunicare.

Questa sorta di discriminazione è tuttora riscontrabile persino nel nostro modo di parlare: la parola “sordomuto”, infatti, indica proprio come si pensi che chi è sordo non possa nemmeno parlare; ciò è assolutamente sbagliato, perché un sordo è perfettamente in grado di esprimersi vocalmente, se istruito in modo adeguato.

In effetti alcuni appartenenti alla comunità sorda rifuggono la L.I.S. (Lingua Italiana dei Segni), dal momento che credono che essa li allontani dal mondo degli udenti; ma è proprio questo essere sordi (e non sordomuti) che genera il bisogno di una lingua che permetta di esprimersi nella maniera più fluida, più immediata, più naturale per questi soggetti; una lingua in grado di rendere idee complesse, astratte e sfumature di significato, che permetta di trattare filosofia, politica, letteratura, ed allo stesso tempo di comunicare umorismo ed ironia; una lingua, infine, che non sia un surrogato dell’italiano che tutti noi utilizziamo. La lingua dei Sordi.

   

 

 

Il segno è il fulcro e l’unità principale della Lingua dei Segni; anche se tale paragone è riduttivo, è possibile comparare il segno alla parola della lingua vocale. Esso è costituito da cinque diversi parametri:

 

                

 

Configurazione: essa corrisponde alla forma che la mano assume nel formare un determinato segno; le principali configurazioni corrispondono alle lettere dell’alfabeto manuale (dattilologia).

 

 

 

Luogo: indica lo spazio in cui i segni sono prodotti; relativamente circoscritto, va dalla testa alla vita e da una spalla ad un’altra, senza mai coprire il volto ed in particolare le labbra (in questo modo l’interlocutore può mantenere il volto del segnante al centro del proprio campo visivo, senza perdere di vista l’espressione facciale). L’utilizzo dello spazio è assolutamente importante dal momento che permette al segnante di collocare eventi, luoghi e/o persone nello spazio e nel tempo.

 

 

ORientamento: i tipi di orientamento sono numerosi e sono costituiti dal tipo di movimento che occorre fare quando si esegue un segno.

 

 

Movimento: è sostanzialmente costituito dalla direzione del segno (verso il segnante, verso l’interlocutore, in un’altra direzione), ed è parte integrante del verbo direzionale.

Aspetti non manuali: essi comprendono tutti quegli elementi che sono espressi dal resto del corpo (postura, espressione facciale, movimento delle labbra), e che sono assolutamente importanti per la comprensione del segno.

 

Ogniqualvolta si commettono errori nell’esprimere anche uno solo degli aspetti suddetti, il segno prodotto risulta “sporco”, come quando, nel pronunciare una parola, si sbaglia intonazione o desinenza finale.